Corruzione tra privati: come è cambiata e cosa prevede la nuova riforma
Entrerà in vigore nei prossimi giorni, il 14 aprile 2017, il decreto legislativo n.38/2017 che segnerà una tappa importante nel processo di attribuzione alla corruzione tra privati.
L’imminente entrata in vigore del decreto legislativo n. 38/2017 (14 aprile 2017) segna una tappa importante nel processo di armonizzazione del sistema penale nazionale con le indicazioni internazionali e che consente di registrare significativi progressi legislativi sintetizzabili (i) nell’ampliamento del novero dei soggetti coinvolti e delle condotte sanzionabili come pratiche corruttive e istigatrici, (ii) nella focalizzazione del disvalore sulla finalizzazione dell’accordo corruttivo, (iii) nel potenziamento del sistema sanzionatorio complementare, rappresentato dalle pene accessorie e dalle sanzioni per illeciti amministrativi da reato degli enti.
Trattasi all’evidenza di processo ancora in itinere che dovrà sciogliere criticità di non poco conto quali la procedibilità a querela, sia pur mitigata da letture estensive della legittimazione alla querela in favore di terzi estranei al patto corruttivo e con l’eccezione per fatti di corruzione finalizzati alla distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi.
Sono state altresì novellati alcuni articoli del codice civile e delle leggi complementari tenendo conto della decisione quadro 2003/568/GAI e, soprattutto ed è stato affrontato con maggiore severità il tema della responsabilità degli enti, facendo assurgere ad ipotesi criminosa anche la semplice istigazione alla corruzione tra privati, in sintonia con le indicazioni del Consiglio dell’Unione Europea in tema di lotta contro la corruzione nel settore privato.
Era ormai acquisita, specie a livello europeo la consapevolezza della necessità di prevenire e reprimere la corruzione fra privati, quale fondamentale contributo al contrasto della ben più grave e socialmente odiosa “corruzione pubblica“, nel generale quadro di tutela della solidità del contesto economico e della lealtà della concorrenza assurti ormai al rango di veri e propri valori unanimemente condivisi.
Al riguardo, particolarmente critico nei confronti del nostro paese risultava il Rapporto di valutazione sull’Italia del Group of States against Corruption adottato nella riunione plenaria svoltasi a Strasburgo il 20-23 marzo 2012, ove si legge: «Innanzitutto, per quanto attiene la gamma dei possibili autori, l’articolo si limita a contemplare amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori. (…) In secondo luogo, per quanto riguarda i beneficiari della tangente, non viene fatta menzione nell’art. 2635 c.c. delle terze parti. In terzo luogo, con particolare riferimento alle azioni materiali che caratterizzano la corruzione, non vengono espressamente previste l’offerta di una tangente e la richiesta di una tangente. In quarto luogo non vi è un esplicito riferimento alla commissione indiretta di reato, es. tramite intermediari. In quinto luogo, secondo la legge italiana deve coincidere il danno alla persona giuridica che non è richiesto dalla Convenzione. Infine, il reato non è punibile ex officio, ma è necessaria la denuncia da parte della vittima».
Sulla scorta di questa che appare una vera e propria reprimenda la legge 190 del 2012, senza introdurre una generica fattispecie criminosa, si era occupata solo alle società commerciali e, secondo la precedente impostazione, condizionava la punizione della corruzione alla lesione del patrimonio sociale.
Sintesi del quadro normativo antecedente
Prima della riforma, l’art. 2635 c.c., da ultimo modificato dal d.lgs. 202/2016, sanzionava, ove la condotta non costituisse un più grave reato, due peculiari forme di corruzione passiva (per intranei): la prima ascrivibile agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci ed ai liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compivano od omettevano atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società (fattispecie punita con la reclusione da uno a tre anni ex art. 2635, comma 1, c.c.); la seconda rivolta ai soggetti sottoposti alla direzione o alla vigilanza di uno dei dirigenti indicati al primo comma (dall’art. 2635, comma 2, c.c. sanzionata con la reclusione fino a un anno e sei mesi).
Il delitto di corruzione attiva ricorreva a fronte di dazioni o promesse di denaro od altra utilità alle persone indicate nel primo e nel secondo comma.
Nel testo normativo comparivano altre due previsioni non modificate dal d.lgs. n. 38/2017:
- il raddoppio delle pene stabilite nei primi tre commi dell’art. 2635 c.c. nel caso di condotte interessanti società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’art. 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (art. 2635, comma 4, c.c.);
- la previsione della querela come condizione di procedibilità, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi (art. 2635, comma 5, c.c.).
Pur a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 190/2012 e dal d.lgs. n. 202/2016, rimanevano estranei al reato di corruzione tra privati:
- i dirigenti apicali con funzioni di amministrazione e controllo (o sottoposti alla loro direzione o vigilanza) di enti collettivi privati diversi dalle società commerciali
- gli esercenti di funzioni direttive (non apicali) presso società commerciali, al di fuori di contributi concorsuali nella veste di extranei
- gli intermediari dei soggetti apicali quali soggetti intranei, fatta salva la possibilità di riconnettere ai primi contributi concorsuali quali extranei
- dell’offerta (sul versante della corruzione attiva) e della sollecitazione (sul versante della corruzione passiva) di un indebito vantaggio, se non in quanto poi accolte e dunque elementi dell’accordo corruttivo (rivelato dalla promessa o dazione di denaro o altra utilità) concretamente eseguito
- delle violazioni degli obblighi inerenti all’ufficio o degli obblighi di fedeltà degli apicali nelle funzioni di amministrazione e controllo che non avevano cagionato nocumento alla società
- dell’istigazione alla corruzione tra privati, sia dal lato attivo (qualora l’offerta o la promessa all’intraneo non sia da questi accettata), che dal lato passivo (qualora la sollecitazione dell’intraneo non sia accolta)
Il D.lgs. 38/2017
Il decreto legislativo n. 38/2017 ha tentato di colmare le lacune summenzionate, inasprendo il trattamento sanzionatorio in ipotesi di responsabilità degli enti ed attribuendo rilevanza penale all’istigazione alla corruzione tra privati ma, come accennato ha trascurato altre disfunzioni dell’assetto normativo della fattispecie penale quale il macchinoso e poco chiaro regime di procedibilità.
Il legislatore si è mosso introducendo nuove norme di contenuto specifico che hanno novellato ed interpolato quelle del codice civile e delle leggi complementari fino ad ora vigenti.
In questa prospettiva l’art. 3 ha modificato la disciplina della corruzione fra privati così come regolata dai primi due commi dell’art. 2635 c.c.
In particolare, vengono ora considerati, tra gli autori del reato, non solo coloro che rivestono posizioni apicali di amministrazione e di controllo, ma anche coloro che svolgono attività lavorativa mediante l’esercizio di funzioni direttive presso società o enti privati.
Dal canto suo l’art. 4 ha introdotto l’art. 2635-bis del codice civile con la quale viene per la prima volta sanzionata l’istigazione alla corruzione tra privati, punendo, in qualità di soggetto attivo del reato, chiunque offra o prometta denaro o altre utilità non dovuti ad un soggetto intraneo al fine del compimento od omissione di atti in violazione degli obblighi inerenti il proprio ufficio o degli obblighi di fedeltà, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata (art. 2635-bis, comma 1, c.c.) e, quale soggetto passivo, l’intraneo che solleciti una promessa o dazione di denaro o altra utilità, al fine del compimento o dell’omissione di atti in violazione dei medesimi obblighi, qualora tale proposta non sia accettata (art. 2635-bis, comma 2, c.c.).
L’apprezzabile sforzo normativo di introdurre una tutela maggiormente severa con la formalizzazione di veri e propri reati di pericolo, sconta però il già rilevato deficit della procedibilità a querela della persona offesa.
Pene accessorie (art. 5 del d.lgs. 38/2017)
La condanna per il reato di cui all’art. 2635, primo comma, c.c. (corruzione passiva dell’intraneo) importa in ogni caso l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese di cui all’art. 32-bis c.p. nei confronti di chi sia già stato condannato per il medesimo reato o per quello di cui all’art. 2635-bis, secondo comma (istigazione passiva alla corruzione). In base all’ordinaria disciplina dell’art. 32-bis c.p. l’interdizione temporanea (da un mese a cinque anni, in base all’art. 30 c.p.) dagli uffici direttivi delle persone giuridiche conseguirebbe ad ogni condanna alla reclusione non inferiore a sei mesi per delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all’ufficio.
La pena accessoria priva il condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, l’ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell’imprenditore.
Sanzioni per responsabilità amministrativa da reato (art. 6 del d.lgs. 38/2017)
Per il delitto di corruzione attiva tra privati (art. 2635, comma 3, c.c.), in particolare, è previsto che si applica la sanzione pecuniaria da quattrocento a seicento quote; nei casi di istigazione attiva (art. 2635-bis, comma 1 c.c.), la sanzione pecuniaria scende da duecento a quattrocento quote. Si applicano, altresì, le sanzioni interdittive previste dall’art. 9, comma 2, d.lgs. n. 231/2001 (l’interdizione dall’esercizio dell’attività; la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi).
Se in passato poteva convenirsi con la scelta di riservare la responsabilità amministrativa da reato alla società «corruttrice», atteso che nel caso di società «corrotta» il compimento di un atto di infedeltà causativo di nocumento per l’ente rendeva impossibile immaginare che il reato potesse considerarsi commesso «nell’interesse o vantaggio» di quest’ultima (così Bricchetti, op. cit., p. 534), non parimenti condivisibile appare ora la conservata limitazione. Risulta plausibile, infatti, che anche rispetto alla società del «corrotto» possano prodursi le condizioni di imputazione di tale responsabilità ex artt. 5, 6 e 7 d.lgs. n. 231/2001 in dipendenza di un accordo corruttivo, che non solo non richiede più la causazione di un nocumento per la società del corrotto, ma non esclude che la stessa consegua un vantaggio. In dottrina (Bartoli, Corruzione privata: verso una riforma di stampo europeo? Dir. Pen. e Processo, 2017, 1, 5) è stato fatto l’esempio della corruzione di una società di certificazione, che tragga vantaggio dalla circostanza di “fidelizzare” il proprio cliente o di trovarne altri proprio grazie alla propria corruttibilità, oltre alla possibilità dell’ente di sfruttare la corruzione realizzata al proprio interno quale meccanismo per incrementare lo stipendio dei propri dipendenti senza attingere a riserve proprie.
Speriamo che questo articolo possa esservi utile!