Possesso di documenti aziendali riservati: può essere giusta causa di licenziamento?

Oggi parleremo del possesso di documenti aziendali riservati da parte di un lavoratore. Può integrare la violazione degli obblighi di fedeltà del lavoratore ed essere giusta causa di licenziamento? Oggi andremo ad analizzare un case history su questo argomento.

Ecco l’episodio: un lavoratore proponeva ricorso per contestare la legittimità del licenziamento, disposto dal datore di lavoro per possesso e abusiva acquisizione di documenti aziendali, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno.
Soccombente in primo grado, anche la Corte di Appello riteneva che il licenziamento fosse proporzionato alla gravità dei fatti contestati, perché il ricorrente rivestiva un ruolo delicato all’interno della società e la sua condotta ledeva il vincolo fiduciario, essendo evidente la violazione dell’articolo 2105 c.c.

Il lavoratore chiedeva quindi ricorso per Cassazione, ritenendo, tra gli altri motivi, che la violazione del dovere di fedeltà sia configurabile laddove le notizie riservate vengano diffuse all’esterno dell’azienda e non quando vi sia solo una semplice acquisizione di notizie.
La Cassazione però respinge la domanda del ricorrente.
La motivazione della Corte fu che il contenuto dell’art. 2105 c.c. è più ampio rispetto a quello risultante dal testo stesso, dovendo essere integrato con i generali principi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. Di conseguenza, il possesso di documenti aziendali riservati, anche qualora la divulgazione non avvenga, configura violazione del dovere di fedeltà.

La Corte territoriale ha premesso che all’appellante erano stati contestati il possesso e la abusiva acquisizione di appunti manoscritti concernenti informazioni confidenziali che si riferivano alle materie prime, al loro costo, alla identità dei fornitori e dei clienti, alle modalità di produzione e di trasporto. Ha ritenuto provata, sulla base delle deposizioni rese dai testi, la natura riservata dei documenti, che la società non aveva mai posto a disposizione del ricorrente, in quanto attinenti ad ambiti produttivi e commerciali che esulavano dal ruolo di responsabile della manutenzione. Ha aggiunto anche che le informazioni erano destinate ad altro imprenditore il quale, sentito come teste, aveva confermato la circostanza e precisato che la richiesta da lui rivolta aveva lo scopo di acquisire i dati necessari per valutare la opportunità della produzione. Infine la Corte ha ritenuto il licenziamento proporzionato alla gravità dei fatti contestati, perché il ricorrente rivestiva un ruolo delicato all’interno della società e la condotta era senz’altro tale da ledere il vincolo fiduciario, essendo evidente la violazione dell’art. 2105 c.c..

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso sulla base di tre motivi:

– Con il primo motivo il lavoratore denunciava ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 un “omesso esame dei fatti connessi all’attività lavorativa complessivamente svolta dal ricorrente per l’intera durata del rapporto di lavoro…“.
Rileva di avere dedotto nei precedenti gradi di giudizio di essersi sempre occupato non solo di attività connesse all’incarico aziendale di direttore tecnico di produzione, ma anche di ulteriori funzioni legate all’intero ciclo della produzione industriale. La Corte territoriale, pertanto, avrebbe dovuto considerare la circostanza e valorizzarla per escludere la contestata indebita acquisizione di notizie riservate, atteso che, proprio in considerazione delle attività svolte, il ricorrente aveva libero accesso al luogo nel quale i documenti erano custoditi e nessuno mai gli aveva impedito di visionare atti relativi al ciclo produttivo.

– La seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, denuncia “inosservanza e/o falsa applicazione del concetto giuridico di proporzionalità; motivazione finanche insufficiente“. Richiamata giurisprudenza di questa Corte, si sostiene che il giudice del merito avrebbe dovuto valutare l’assenza di precedenti sanzioni, la durata del rapporto, il ruolo in passato ricoperto dal dipendente, il quale aveva contribuito allo sviluppo della società, apportando un contributo decisivo alla realizzazione di numerosi progetti, alla ricerca delle materie prime, alla costruzione di nuovi macchinari. Ai fini del giudizio di proporzionalità, inoltre, la Corte non poteva valorizzare la asserita contraddittorietà delle difese, poiché il giudizio attiene al rapporto fra addebito contestato e sanzione, sul quale non incidono condotte successive alla commissione dell’illecito.

– Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, “inosservanza e/o falsa applicazione dell’art. 2105 c.c. in relazione al precetto di lealtà e fedeltà; motivazione omessa“. Evidenzia il ricorrente che la violazione del dovere di fedeltà è senz’altro configurabile qualora le notizie riservate vengano divulgate all’esterno non già nella ipotesi, contestata nel caso di specie, della mera acquisizione di notizie. L’inadempimento doveva pertanto essere escluso perché la società non aveva dato prova della divulgazione e neppure della destinazione a terzi delle notizie acquisite.

I motivi, da trattare congiuntamente perché connessi, presentano profili comuni di inammissibilità, nella parte in cui sollecitano il controllo di questa Corte sulla motivazione della decisione impugnata.
La sentenza, pronunciata all’udienza del 10 luglio 2012, è stata pubblicata il 6 novembre 2012, sicché è applicabile alla fattispecie l’art. 360 c.p.c., n. 5 nel testo modificato dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 22.9.2014 n. 19881 e Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8053) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali“. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico“, nella “motivazione apparente“, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile“, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”.

Nessuna di dette ipotesi ricorre nella fattispecie, poiché la Corte territoriale ha dato ampio conto delle ragioni per le quali doveva essere esclusa la asserita illegittimità del licenziamento, evidenziando: che l’istruttoria consentiva di ritenere provata la condotta contestata; che i dati trovati in possesso del lavoratore costituivano informazioni riservate ed erano estranei al ruolo ricoperto dal ricorrente nella organizzazione aziendale; che il comportamento tenuto era tale da ledere il vincolo fiduciario perché contrario al dovere di fedeltà, imposto dall’art. 2105 c.c., nonché agli obblighi di correttezza e buona fede.
Una volta esclusa la violazione di legge per difetto assoluto di motivazione, la ammissibilità delle censure prospettate nel ricorso va valutata alla luce del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che non riguarda la motivazione della sentenza ma concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.
L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.
Il motivo, quindi, è validamente formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 solo qualora il ricorrente indichi il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”.
Dette condizioni non ricorrono nella fattispecie, poiché il ricorso si risolve, in relazione a tutte le questioni prospettate, in una inammissibile critica del ragionamento decisorio seguito dalla Corte territoriale quanto agli accertamenti di fatto e ne sollecita la revisione, non consentita in sede di legittimità.

In particolare, quanto al primo motivo di ricorso, va osservato che la sentenza impugnata, dopo avere esaminato le deposizioni testimoniali e dalle stesse desunto il carattere riservato delle informazioni trovate in possesso del lavoratore, ha escluso che detto possesso fosse giustificato e per giungere a dette conclusioni ha considerato, non solo il ruolo rivestito dal lavoratore al momento del licenziamento, ma anche i compiti svolti in passato, che, sebbene diversi, non erano mai stati inerenti alla produzione ed alla commercializzazione.
Non sussiste, quindi, il denunciato omesso esame, né si ravvisa nella motivazione della sentenza impugnata alcun profilo di contraddittorietà.

Quanto, poi, alla violazione di legge dedotta nel secondo motivo, va premesso che nella giurisprudenza di questa Corte è ricorrente il principio secondo cui il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. 21.11.2016 n. 24029 e Cass. 17.5.2016 n. 10057 Cass. 10.7.2015 n. 14468).

Da detto principio generale è stata tratta la conseguenza, in tema di licenziamento per giusta causa, della possibilità di configurare un vizio di sussunzione solo qualora “la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento. Altrimenti occorrerà dedurre che è stato omesso l’esame di un parametro tra quelli individuati dalla giurisprudenza ai fini dell’integrazione della giusta causa avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità; ma in tal caso il vizio è attratto nella sfera di applicabilità dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5…” (Cass. 23.9.2016 n. 18715) e, quindi, tornano ad espandersi i limiti sopra evidenziati.

La Corte territoriale ha espresso il giudizio sulla adeguatezza della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata, valutando una pluralità di elementi (natura dell’addebito, ruolo ricoperto in azienda, anzianità di servizio – pag. 15) dai quali ha desunto la irrimediabile lesione del vincolo fiduciario.

Si tratta, evidentemente, di una valutazione di merito rispetto alla quale l’asserito omesso esame della mancanza di precedenti disciplinari non ha carattere di decisività, posto che il giudizio di proporzionalità nasce dalla combinazione di una pluralità di elementi e, quindi, ogni dato fattuale può assumere una diversa valenza a seconda della fattispecie concreta. Ciò porta ad escludere che un singolo parametro possa essere ritenuto decisivo nei termini richiesti dall’art. 360 c.p.c., n. 5.

Non integra, poi, violazione di legge l’apprezzamento della condotta complessiva tenuta dal lavoratore successivamente alla contestazione dell’addebito, poiché l’art. 116 c.p.c. conferisce al giudice di merito il potere discrezionale di trarre elementi di prova anche dal comportamento processuale ed extraprocessuale delle parti. Ne discende che, ai fini della valutazione sulla sussistenza della giusta causa, possono assumere rilievo la contraddittorietà e la inverosimiglianza delle difese del lavoratore che, valutate unitamente agli altri elementi di prova offerti dal datore di lavoro, possono essere rivelatrici della sussistenza dell’addebito oltre che dell’intenzionalità della condotta.

Infine non può essere accolto il terzo motivo di ricorso, con il quale si assume che non integra violazione dell’art. 2105 c.c. il mero possesso di informazioni riservate, ove manchi la prova della loro divulgazione.

La censura presenta profili di inammissibilità perché la Corte territoriale, dopo avere dato atto della sicura destinazione a terzi delle notizie illegittimamente acquisite dal lavoratore. A questo proposito si richiama la deposizione del teste “destinatario delle informazioni acquisite dall’appellante”, ha fondato la decisione non solo e non tanto sulla violazione, pur ritenuta, dell’art. 2105 c.c., bensì sulla idoneità del comportamento a minare la fiducia che il datore di lavoro deve necessariamente riporre nella correttezza e nella diligenza del lavoratore.

Va detto, inoltre, che, sebbene l’art. 2105 c.c. richiami espressamente, oltre al divieto di concorrenza, solo il “divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa” o il “farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio“, la non ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi delle fattispecie delineate dal legislatore non è sufficiente a fare escludere la violazione dell’obbligo di fedeltà, atteso che il contenuto di detto obbligo è più ampio rispetto a quello risultante dal testo del richiamato art. 2105 c.c., integrandosi detta norma con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono al lavoratore di improntare la sua condotta al rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede (Cass. 9.1.2015 n. 144).

Ne discende che il prestatore deve astenersi dal compiere non solo gli atti espressamente vietati ma anche quelli che, per la loro natura e per le possibili conseguenze, risultano in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella compagine aziendale, ivi compresa la “mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro, potenzialmente produttiva di danno” (Cass. 1 febbraio 2008 n. 2474).

Ciò comporta che l’impossessamento di documenti aziendali di natura riservata implica violazione del dovere di fedeltà anche nella ipotesi in cui la divulgazione non avvenga, perché impedita dall’immediato intervento del datore di lavoro.

Il ricorso va, pertanto, rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato.

Speriamo che questo articolo vi possa essere utile!

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