Case History: la bancarotta non sussiste se l'azienda fallita paga i creditori di una società da lei garantita
Nel case history di oggi parleremo del reato di bancarotta. Forse non tutti sanno che per sussistere è necessario che la condotta addebitata sia in grado di determinare il pericolo di una effettiva diminuzione della garanzia patrimoniale che non trovi una sua giustificazione in una scelta gestionale compatibile con la logica d’impresa. Di conseguenza, secondo la sentenza n. 44103/2016 della Cassazione, i confini del sindacato sulla gestione dell’impresa sono determinati dall’oggetto della tutela (l’interesse dei creditori alla conservazione della garanzia), ma soprattutto dalle stesse modalità di aggressione selezionate per l’incriminazione (distrazione, dissipazione, dissipazione e occultamento) ed individuate attraverso il ricorso ad una terminologia immediatamente evocativa del disvalore intrinseco del fatto.
La Cassazione ha infatti deciso, in riferimento ad operazioni fra cosiddette parti correlate ovvero fra società facenti capo alle medesime persone fisiche, un caso di legittimità perché tali operazioni integrano una fattispecie di bancarotta solo se realizzano una effettiva diminuzione del patrimonio della società fallita, potendo essere oggetto di rimprovero le scelte imprenditoriali (che non siano semplicemente dannose e che eventualmente possono rilevare quali ipotesi di bancarotta semplice, bensì) che si risolvono in una ingiustificata e volontaria sottrazione dei beni dell’impresa alla loro naturale funzione di garanzia delle passività della medesima.
Il giudice penale deve quindi sempre accertare se la scelta imprenditoriale trovasse o meno una giustificazione economica ed abbia effettivamente messo a repentaglio la conservazione della garanzia patrimoniale della fallita, non potendosi limitarsi a riscontrare l’esistenza di un indice di sospetto rappresentato dalla circostanza che vi sia una parziale coincidenza fra i soggetti che gestiscono le diverse società coinvolte nell’operazione economica.
Il fatto in questione è questo: l’amministratore ed il Presidente del Consiglio di Amministrazione di una società calcistica di rilievo nazionale erano condannati per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e di cagionamento del fallimento per effetto di operazioni dolose.
I reati concernevano plurimi fatti lesivi dell’integrità patrimoniale della fallita commessi attraverso le operazioni ad oggetto il centro sportivo e funzionale dove la società aveva la sua sede nonché un complesso immobiliare nel quale era prevista la costruzione di un ulteriore centro sportivo. Nel primo caso veniva contestato che, dopo due mesi dall’acquisto da parte della società sportiva del complesso sportivo (che la fallita aveva già in uso essendo stato acquisito in locazione finanziaria da una società facente capo ad uno dei due indagati), lo stesso veniva rivenduto con patto di riscatto ad una società riconducibile all’altro indagato, la quale lo prometteva in locazione alla stessa società calcistica; successivamente all’assunzione da parte dei due imputati della guida formale della fallita, la stessa rinunciava al patto di riscatto e, nello stipulare il contratto definitivo di locazione, accettava condizioni ritenute più onerose di quelle originariamente pattuite (in ordine alla durata del rapporto, all’entità del canone e agli oneri accessori) e contestualmente veniva redatta scrittura privata contenente la promessa da parte della nuova proprietaria di cedere alla fallita il contratto di locazione finanziaria comprensivo del diritto di riscatto del complesso immobiliare.
Quanto alla contestazione inerente la destinazione data al complesso immobiliare utilizzato in precedenza dalla società calcistica a titolo di locazione, si contestava agli imputati di aver proceduto all’acquisto definitivo dello stesso da una società riferibile ad uno degli indagati, nonostante sulla venditrice gravasse istanza di fallimento presentata da una delle banche creditrici e nonostante la mancata realizzazione da parte della venditrice delle opere per cui era stata rilasciata concessione edilizia nei termini fissati dalla stessa, con conseguente depauperamento del valore del bene.
Contro le condanne ricorrevano imputati, sostanzialmente sostenendo che i giudici di merito avevano emesso un giudizio di penale rilevanza con riferimento a scelte imprenditoriali che costituivano espressione della insindacabile discrezionalità che deve essere riconosciuta ciascun imprenditore. Ad esempio, con riferimento all’acquisto ed alla successiva rivendita del centro sportivo si lamentava che la sentenza impugnata avesse illogicamente trascurato come la cessione alla società di uno degli indagati avesse generato una cospicua plusvalenza rispetto al prezzo d’acquisto.
Quanto all’acquisto del complesso immobiliare, si riconosceva che la stipula di tale negozio fosse stata necessaria per risollevare la società venditrice da uno stato di profonda crisi, ma al contempo si ricordava come la società calcistica avesse rilasciato in favore della persona giuridica venditrice una serie di fideiussioni per i debiti da quest’ultima assunti nei confronti del sistema bancario, sicché la fallita, qualora non avesse onorato il preliminare di vendita consentendo alla venditrice di finanziarsi, avrebbe rischiato di veder escluse le suddette garanzie.
Infine, i giudici del merito avrebbero illogicamente ed immotivatamente svalutato la genesi del dissesto della fallita, da attribuirsi alla rilevante decurtazione dei diritti televisivi conseguita alla retrocessione della squadra nella serie cadetta nel 1998, nonché l’impossibilità per la fallita di accedere direttamente al credito bancario per garantirsi l’operatività finanziaria gravemente compromessa dal suddetto evento.
La Cassazione ha accolto parzialmente i ricorsi, in particolare ritenendo insussistenti reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale con riferimento al secondo degli episodi sopra menzionati ed inerente l’acquisto del patrimonio immobiliare facente capo ad una società riferibile a uno dei due imputati.
Mentre secondo la Cassazione l’operazione inerente la gestione del centro sportivo presso il quale si allenava la squadra calcistica gestita dalla società fallita non presentava alcun profilo di razionalità economica sicché la condotta accertata – rappresentata non già dalla mobilizzazione del bene, bensì dalla sostituzione dello schema con cui originariamente ciò era stato effettuato con altro meno favorevole per la fallita – presentava sia i geni della dissipazione, che quelli della distrazione avendo determinato una illecita depressione della garanzia patrimoniale dell’imprenditore in conseguenza dell’estraneità dell’operazione a qualsiasi logica economica d’impresa, diverse erano le conclusioni che andavano assunte con riferimento all’acquisto del complesso immobiliare, rispetto al quale la sentenza impugnata non ha saputo evidenziare l’insussistenza di una ragione economica idonea a giustificare l’operazione incriminata.
In proposito, la Cassazione fa una serie di premesse circa le condizioni in presenza delle quali il giudice penale può operare la valutazione discrezionale di scelte dell’imprenditore che non hanno una connotazione di assoluta estraneità e quindi non sono immediatamente qualificabili come delittuose. Sul punto, il consolidato insegnamento giurisprudenziale e dottrinario è nel senso che, ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta patrimoniale, è necessario che la condotta addebitata sia in grado di determinare quantomeno il pericolo di una effettiva diminuzione della garanzia patrimoniale che non trovi una sua giustificazione in una scelta gestionale compatibile con la logica d’impresa. Di conseguenza, i confini del sindacato sulla gestione dell’impresa sono dunque determinati dall’oggetto della tutela (l’interesse dei creditori alla conservazione della garanzia), ma soprattutto dalle stesse modalità di aggressione selezionate per l’incriminazione (distrazione, dissipazione, dissipazione e occultamento) ed individuate attraverso il ricorso ad una terminologia immediatamente evocativa del disvalore intrinseco del fatto tipizzato e che altrettanto immediatamente rivela come oggetto di rimprovero non siano le scelte imprenditoriali dannose in sé (eventualmente rilevanti, in determinati casi, ai sensi dell’art. 217 legge fallimentare), bensì quelle che si risolvono in una ingiustificata e volontaria sottrazione dei beni dell’impresa alla loro naturale funzione di garanzia delle passività della medesima.
La Corte Suprema ritiene erronea la qualificazione dei fatti contestati agli imputati con riferimento all’acquisto del complesso immobiliare più volte menzionato. I giudici di merito, infatti, hanno dato atto di come l’esposizione della venditrice del complesso immobiliare in parola verso il sistema bancario fosse garantita in misura assai rilevante da una fideiussione prestata dalla fallita in epoca antecedente a quella in cui gli imputati ne hanno assunto formalmente la guida e dalle stesse sentenze di primo e secondo grado emergeva parimenti che il prezzo fissato per l’acquisto del bene fosse sostanzialmente coerente al suo valore di mercato; a fronte di ciò, oggetto di rimprovero ai due imputati era la scelta di aver dato seguito al preliminare con cui nel 1998 la società calcistica si era impegnata ad acquistare il bene nonostante non potesse più ritenersi giuridicamente obbligata ad onorare il negozio essendosi avverata la condizione risolutiva pattuita in ragione della sopravvenuta proposizione da parte di una delle banche creditrici di istanza di fallimento di società venditrice.
Orbene, secondo la Cassazione, che la società calcistica fallita fosse o meno tenuta ad onorare il preliminare di compravendita è questione affatto irrilevante giacché, anche qualora dovesse ammettersi che la fallita avrebbe potuto legittimamente sottrarsi alla stipulazione del contratto definitivo, ciò ancora non è sufficiente per attribuire valore dissipatorio o distrattivo alla decisione di concluderlo. Infatti, come chiarito in precedenza, era necessario accertare se la scelta imprenditoriale trovasse o meno una giustificazione economica ed abbia effettivamente messo a repentaglio la conservazione della garanzia patrimoniale della fallita.
Sul punto le decisioni di merito hanno riconosciuto come la scelta di dare seguito al preliminare fosse stata determinata dall’esigenza di fornire alla società venditrice liquidità immediata al fine di sottrarla all’insolvenza e, soprattutto, ammettendo che sulla stessa abbia influito il timore dell’eventuale escussione della fideiussione di cui la fallita si era caricata. Al contempo i giudici di primo e secondo grado hanno ritenuto che sarebbe stato più conveniente evitare l’esborso immediato, pur nel rischio di un esborso di pari valore all’esito dell’escussione della fideiussione, in ragione della certezza della “perdita” subita concludendo il contratto rispetto alla mera eventualità della suddetta escussione.
Questa argomentazione non trova concordi i giudici di legittimità secondo cui va innanzitutto evidenziato che alla conclusione del contratto definitivo di vendita era conseguito l’esborso del prezzo pattuito, ma anche l’acquisizione del bene al patrimonio della fallita, per cui è scorretto definire una “perdita” il risultato netto dell’operazione censurata, che in realtà si è risolta nella mera immobilizzazione di risorse liquide in un bene la cui funzionalità all’oggetto sociale della fallita gli stessi giudici non hanno invero negato.
In tal senso la Cassazione non intende escludere in termini assoluti che la trasformazione di asset-patrimoniali possa assumere i crismi della tipicità della bancarotta fraudolenta, ma perché ciò possa essere ritenuto è necessario che l’operazione non avvenga nel rispetto dei valori di mercato ovvero che la stessa sia funzionale a rendere più difficoltosa la futura liquidazione del patrimonio (ad esempio perché il bene su cui si è investito è di realizzo problematico), condizioni che nel caso di specie non si sono verificate, atteso che entrambe le sentenze di merito hanno ritenuto congruo (ed anzi inferiore) il prezzo pagato rispetto al valore di mercato del bene acquisito, nonché in ragione della natura del bene, terreni a vocazione edificatoria e sui quali non si era ancora sostanzialmente edificato.
Alla luce di queste considerazioni, che portano a ritenere che nel caso di specie il patrimonio della fallita non abbia subito un’effettiva diminuzione, la qualificazione del fatto come effettivamente tipico operata dai giudici di merito si fonda su una valutazione di mera opportunità del negozio, invero eccentrica rispetto al contenuto della fattispecie contestata. La scelta di fronteggiare il rischio di escussione della fideiussione attraverso un’operazione che assicurasse nuova finanza al debitore garantito mantenendo sostanzialmente invariata la consistenza del patrimonio della fallita può certo essere criticata o perfino ritenuta incauta sotto il profilo imprenditoriale, ma non solo per questo integra il reato contestato, dovendosene escludere la natura dissipatoria, attesa la funzionalità agli scopi dell’impresa (Cass. Pen., sez. V, 19 ottobre 2001, n. 47040; Cass. Pen., sez. V, 23 ottobre 2002, n. 38835; Cass. Pen., sez. V, 7 marzo 1989, n. 12874).
Non avendo esaminato tale profilo, i giudici di merito hanno ritenuto integrato il reato esclusivamente in ragione del presunto saldo negativo dell’operazione, peraltro senza tenere conto del suo più ampio contesto, finendo per effettuare una valutazione di mera opportunità gestionali non eccentriche rispetto agli scopi dell’impresa ed allo stesso adempimento del dovere di conservazione della garanzia patrimoniale.
In base a queste considerazioni, secondo la Cassazione la vicenda non poteva neppure essere qualificata quale bancarotta impropria da operazioni dolose. Infatti, la circostanza che la norma incriminatrice parli di operazioni dolose evoca immediatamente come l’atto di gestione debba essere posto in essere dall’autore tipico con abuso della propria carica ovvero contravvenendo ai doveri che la stessa gli impone, atteso che tale attributo – altrimenti del tutto inutile sotto il profilo tecnico-penalistico alla luce dell‘art. 43 c.p. – evidenzia un connotato d’intrinseca illiceità. Alla luce di quanto sopra riferito, però, è evidente evidente come gli atti di gestione contestati ai ricorrenti in relazione all’operazione di cui si tratta non presentino tali caratteri in ragione della rilevata coerenza economica dei medesimi.
Speriamo che questo articolo sia utile per chiarire un po’ le idee sul reato di bancarotta.